APM – Archeologia Postmedievale, 25, 2021
Già oltre un quarto di secolo fa, con il convegno “Archeologia Postmedievale: l’esperienza europea e l’Italia” (1994, poi pubblicato nel 1997), il tema della “fine cronologica” del senso dell’archeologia venne risolto con l’indicazione che si trattava di un falso problema, anche ironizzando sul concetto implicitamente svalutativo di “tardo”, soggettivamente applicato in archeologia secondo la specializzazione cronologica dei vari ricercatori. Senza trascurare la “condizione privilegiata che caratterizza l’archeologia postmedievale come area di ricerca intrinsecamente pluridisciplinare” e le potenzialità di sviluppare modelli interpretativi generali utili anche ad altre archeologie, grazie alla maggiore ricchezza qualitativa di fonti di natura differente su un unico oggetto (Archeologia Postmedievale, 1, p. 15). In realtà, nulla è “tardo”, in archeologia, ma ogni evidenza archeologica – stratificata o non – ha, molto più semplicemente, la sua cronologia. Non è quindi la cronologia a qualificare un bene come archeologico o meno, anche a dispetto dell’ingiustificata posizione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.L. 22 gennaio 2004, n. 42, Art. 184, allegato A), che fa riferimento alla cerniera dei cento anni di età dei reperti, ai fini di una loro valutazione per determinate circostanze, oppure alle “vestigia” della Prima Guerra Mondiale, oggetto di disposizioni speciali (Art. 11, comma 1, lettera i; Art. 50, comma 2), a differenza di quelle della Seconda Guerra Mondiale, discriminate per la loro cronologia. Testimonianze archeologiche, sia le prime che le seconde, lasciate comunque notoriamente (in chiaro, come il web testimonia) in preda a collezionisti cercatori dotati di metal detector, talvolta addirittura autorizzati, attività che non prevedono alcuna documentazione archeologica e con carattere fortemente lucrativo e di sottrazione al patrimonio pubblico. La discrasia tra teoria, metodologia, strumenti giuridici e realtà è dunque più che evidente e molto opportunamente il senso dello scavare con metodologie archeologiche non solo i secoli più recenti, ma lo stesso presente, tema che gode di un’ampia cornice di dibattito a livello europeo, è stato ripreso in un recente convegno di alta divulgazione, tenutosi a Firenze il 18 dicembre 2021, curato da Giuliano Volpe e da Giuliano De Felice, nel quadro delle manifestazioni di TourismA. In questo numero della rivista ne sono pubblicati gli atti, che comprendono contributi di Giuliano Volpe, Marco Milanese, Giuliano De Felice, Francesca Anichini e Andrea Augenti. Giuliano Volpe cita alcuni degli aspetti di maggior interesse del rapporto tra archeologia e secoli più recenti, la sostenibilità metodologica di uno sguardo archeologico che non può conoscere interruzioni, fino al presente, sia pure con il rischio concreto di toccare ferite aperte e nervi sensibili della storia recente, fino a sottolineare la frequente identificazione di queste ricerche con l’archeologia pubblica. Nel suo contributo chi scrive discute invece se, in una prospettiva italiana ed europea, il tema del coincidere della cronologia più recente dell’archeologia con il presente (e pertanto in continuo movimento) possa ormai essere considerato davvero un postulato metodologico, alla luce dei diversi atteggiamenti tenuti dagli archeologi a riguardo di questo argomento, posizioni desunte, prevalentemente in modo indiretto, in assenza di dichiarazioni esplicite a proposito o di un vero dibattito strutturato. Giuliano De Felice interviene sulle recenti (2021) indagini archeologiche nel campo di prigionia di Altamura (Bari), soffermandosi sulla sua complessa storia che va ben oltre le guerre mondiali, fino a diventare un centro per rifugiati negli anni Cinquanta e alla distruzione negli anni Ottanta, per la ricavarne macerie da utilizzare in imponenti terrapieni stradali. La ricerca ha un fertile innesto nella comunità di patrimonio del campo PG65, in cui memoria, identificazione e valorizzazione riescono a esprimere i più originali valori della Convenzione di Faro. Francesca Anichini presenta l’impianto e i primi risultati di una ricerca sulle tracce delle migrazioni a Lampedusa, con ampi riferimenti alla casistica internazionale, in un complesso quadro reso tossico dalle strumentalizzazioni politiche e da endemici razzismi e in cui l’archeologia, muovendosi sulle tracce di migranti e rifugiati, dovrebbe sviluppare un dialogo più efficace con la sociologia delle migrazioni. Il contributo di Andrea Augenti, Andrea Mandara e Francesca Pavese sul museo di Classis Ravenna, in un contenitore di alto interesse per l’archeologia industriale, quale l’ex Zuccherificio Eridania, un’operazione che inserisce il racconto di un luogo centrale per il mondo tardo-antico e altomedievale all’interno di un manufatto identitario di una lunga storia del lavoro di questa comunità, quale lo Zuccherificio, che diventa anche contenitore narrante di se stesso, in una forte prospettiva di archeologia pubblica.