Uomo, lavoro, comunità
Ad oggi che le condizioni su cui è prosperata la democrazia in Occidente paiono mutate, anche l’affermazione di un universale diritto al lavoro ha visto diminuire i propri spazi e, con esso, a ridursi è risultata essere la legittimità delle istituzioni pubbliche, che si sono ritrovate nella condizione di non poter più garantire, in riferimento a tale fondamentale diritto, ciò che fino a qualche anno fa garantivano. Ci si è chiesto allora: come tentare di uscire da questa evidente crisi di legittimità? Si è provato a suggerire una definizione dei contorni reali ed ideali di un nuovo modello di riferimento di lavoro; si è cercato di ricollocare l’attività professionale all’interno della scala valoriale della comunità occidentale contemporanea; si è tentato di ridiscutere l’interconnessione tra “nuovi” diritti sociali e “nuove” forme di cittadinanza. Potrà apparire paradossale come, alle apparenti difficoltà che un percorso del genere ha lasciato intravedere sin da subito, si sia potuto rispondere con un dato, forse, tuttora, troppo trascurato. Riflettere sul lavoro, ha significato riflettere sull’uomo. Ripensare, in qualche maniera, il lavoro ha significato ripensare l’essere umano. E, parimenti, riflettere sulla legittimità politica – in cui, oggigiorno, il tema della relazione interpersonale mediante una azione come quella lavorativa riveste un peso più che rilevante – ha significato riflettere sull’uomo che la pensa, la vive. In altri termini, la anima.